ArcheoVinum

ArcheoVinum

Ancient Roman wine Museum
Autore: Simone Tabusso 14 settembre 2020
Autore: Simone Tabusso 15 agosto 2020
In età repubblicana nasce il cosiddetto torchio di Catone perché viene descritto minuziosamente dall’ autore nel De agricoltura . Questo torchio si differenzia dai precedenti per i suoi miglioramenti tecnici, infatti era costituito da una leva incastrata all’interno di due montanti in legno con un’estremità libera collegata tramite un sistema di corde ad un verricello che veniva azionato per mezzo di bastoni di legno dagli operai. La descrizione di Catone è molto dettagliata, ma ha dei punti oscuri risolti solo grazie al ricorso all’archeologia sperimentale. Analizzando le basi del torchio si è scoperto che la maggior parte dei rinvenimenti presentavano un basamento in coccio pesto o in pietra con i bordi rialzati per evitare la dispersione del mosto, il quale veniva direzionato tramite l’inclinazione del piano verso un tubo che collegava il torchio ad una vasca di raccolta detta Lacus. La vera innovazione tecnologica che distingue questa pressa dalle precedenti è il meccanismo che permetteva di movimentare la leva, infatti è stato inserito un tronco tra i due montanti collegando una corda alla leva in modo da creare un verricello. Inoltre il cilindro ligneo viene trattato come consiglia Catone: << Per l’argano farai sei fori: il primo mezzo piede dal cardine; gli altri, li distribuirai con estrema esattezza >>. Questi fori venivano effettuati per inserire i bastoni che permettevano di far ruotare il meccanismo e abbassare la leva per creare una pressione sulle vinacce.
Autore: Simone Tabusso 13 giugno 2020
Le fonti antiche come Erone di Alessandria e Plinio il Vecchio descrivono il torchio a vite centrale, che segna un cambiamento radicale nel mondo vitivinicolo. Infatti rispetto alle presse precedenti, queste occupavano minore spazio perché non necessitavano della leva né di grossi contrappesi ed erano costruite totalmente in legno. Essenzialmente queste presse erano strutturate con un contenitore rettangolare costituito da travi di legno detto ara, su cui si impostavano due montanti collegati da un architrave forato in cui era inserita la vite senza fine che veniva fatta ruotare per torchiare le vinacce. I punti di forza di questo nuovo torchio erano essenzialmente le dimensioni ridotte, la facilità di utilizzo e l’economicità del prodotto. Tuttavia questo presentava alcuni aspetti negativi: a differenza dei precedenti questa tipologia necessitava dell’applicazione di una forza costante per mantenere la pressione, inoltre non possedeva un rendimento elevato come i torchi a leva. Un ulteriore variante era il torchio a doppia vite descritto sia da Erone d’Alessandria sia da Plinio il Vecchio. Questo aveva una struttura simile alla pressa a vite centrale, ma al contrario di quest’ultima, presentava due viti ai lati dell’ara centrale che erano bloccate nella parte inferiore; diversamente nella parte superiore erano incastrate in una sorta di architrave che veniva spinto verso l’ara tramite la torsione delle viti. Per quanto riguarda queste ultime due tipologie esistono pochi ritrovamenti essenzialmente a causa di due motivi, infatti queste presse erano costituite totalmente in materiale deperibile, di conseguenza risulta difficile rinvenire tracce della loro presenza sul terreno a differenza di quelle a leva che restituiscono i basamenti in pietra e i contrappesi. Inoltre per il fatto che i torchi a vite venivano scelti dalle strutture più piccole grazie al minor costo di produzione. Tuttavia è stato riconosciuto un unico caso nella villa di Bapteste a Moncrabeau, in cui è rimasto un’ impronta sul terreno a forma di H relativa a un torchio a vite centrale o a doppia vite datata al II secolo d.C. (da Brun, 2005, p 116) Inoltre nelle immediate vicinanze sono state riconosciute delle impronte circolari riferibili al solco formato dagli operai addetti alla manovra delle barre che azionavano il torchio. Queste presse a vite centrale e a doppia vite hanno avuto un grande successo per la loro praticità e sono stati utilizzate in alcune zone addirittura fino al secolo scorso. In conclusione si può affermare che la pressa che aveva una maggior capacità estrattiva era il torchio a vite e contrappeso che però richiedeva degli investimenti importanti, infatti è stato ritrovato esclusivamente nelle grandi ville esportatrici. Invece questi torchi a vite centrale o a doppia vite sembrerebbero essere stati utilizzati dalle strutture più piccole dal momento che richiedevano un minor investimento e possedevano una maggior praticità.
Autore: Simone Tabusso 2 giugno 2020
In età romana vi erano dei veri e propri manuali con indicazioni molto precise riguardo la conduzione di un vigneto, la produzione e la conservazione del vino. Il processo di vinificazione iniziava con il trasporto dei grappoli in cantina che con tutta probabilità avveniva attraverso carri trainati da buoi come testimoniato da numerose attestazioni iconografiche. In seguito, una volta arrivate nel locale addetto alla vinificazione, le uve venivano scaricate all’interno dei calcatoria , vasche costruite in opera cementizia generalmente poste in una posizione sopraelevata rispetto ai sottostanti lacus di raccolta del mosto. I calcatoria solitamente presentavano un fondo costituito da un cocciopesto molto resistente e impermeabile e gli angoli erano smussati al fine di favorirne la pulizia. Qui i grappoli venivano pigiati manualmente dagli operai che, come dimostrano le fonti iconografiche, potevano aiutarsi con corde appese al soffitto o con bastoni per mantenere l’equilibrio. Il mosto che si otteneva da questa prima spremitura defluiva all’interno dei lacus , strutture molto simili ai calcatoria oppure per le realtà più piccole poteva essere raccolto all’interno di contenitori mobili come dolium o botti in legno. Successivamente le vinacce ancora presenti nei calcatoria venivano immesse all’interno del torchio e pressate per ottenere ancora del mosto; alcuni praticavano una seconda spremitura per estrarre l’ultimo succo disponibile, circuncisium , e vinificato solitamente a parte per non danneggiare il vino. A questo punto il mosto doveva essere fatto defluire all’interno di dolia che potevano trovarsi per ¾ interrati o sopra terra: avevano una capacità che variava dai 400lt nelle istallazioni vinicole più piccole fino ad arrivare a 20hl. Per far sì che il processo di vinificazione si compisse e il vino rimanesse sano e di ottimo sapore, era necessario aggiungere alcuni ingredienti. In alcuni casi al mosto venivano aggiunti il defrutum (mosto cotto) , sale, o preferibilmente l’acqua di mare; erbe, spezie e in taluni casi anche miele. Catone sosteneva che tutto ciò era realizzato al fine di migliorare il gusto del vino e di salvaguardarlo dalle malattie. Una volta che il vino aveva completato il processo di fermentazione veniva inserito all’interno delle anfore sigillate con un tappo di sughero o con un coperchio di terracotta isolato con la pozzolana per evitare il contatto con l’ossigeno e nello stesso tempo favorire un lento scambio gassoso; infatti la porosità della terracotta favoriva l’affinamento del vino come avviene nelle attuali barrique.
Autore: Simone Tabusso 17 maggio 2020
L'origine del vetro nel mondo antico è sempre stata avvolta da un' aura magica e misterica. Le prime attestazioni risalgono al III millennio a.C. in Mesopotamia ed Egitto attraverso la tecnica della faiance e dell'invetriatura per rivestire oggetti di altro materiale. Al II millennio a.C. risalgono le prime testimonianze di oggetti cavi. Nel corso della storia la produzione del vetro si specializza fino a raggiungere il suo acmè in età romana. A Roma è Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia che tratta le origini della scoperta del vetro: "Quella parte della Siria che si chiama Fenicia e che confina con la Giudea include nel monte Carmelo una palude che si chiama Candebia. Si crede che da là nasca il fiume Belo, che dopo aver percorso cinque miglia sfocia nel mare, nei pressi della colonia di Tolemaide. Il suo corso è lento, le sue acque non sono buone a bere e tuttavia sono usate nelle cerimonie sacre; il suo letto è limoso, profondo e riversa nel mare le sue sabbie solo con la bassa marea. Perciò queste brillano, finché non sono agitate dalle onde e ripulite così dall'impurità; inoltre esse furono utilizzate solo nel momento in cui si penso che avessero proprietà aspre e astringenti, tipiche dell'acqua salmastra. Proprio in un così piccolo litorale, non più largo di cinquecento passi, molti secoli fa ebbe origine il vetro. Si narra che una nave di mercanti di natron sia lì approdata; i mercanti, riversatisi sulla spiaggia, cominciarono a preparare le cibarie, ma non essendovi una pietra adatta a sostenere il focolare, posero sotto i calderoni dei blocchi di soda (natron) che avevano preso dal loro carico, ma quando li accesero dopo che essi si furono impastati con la sabbia, un rivo di nuovo, trasparente liquido cominciò a fluire: questa fu l'origine del vetro." Da questo racconto si possono evincere gli elementi chimici che concorrono alla formazione del vetro quali il Biossido di silicio (silice) SiO2 contenuto nella sabbia, Sodio Na ( i blocchi di Natron) e il carbonato di calcio CaCO3 presente nei residui di conchiglie all'interno della sabbia. Questi tre elementi sono in ordine: il vetrificante, il fondente e lo stabilizzante che attraverso una fonte di calore, legandosi danno origine alla materia vitrea dalla cui lavorazione nascono preziose forme.
10 maggio 2020
Per alcuni romani di ceto elevato o semplicemente dotati di grandi ricchezze, la cena non era solamente un pasto relativamente frugale al pari della colazione e del pranzo, ma una vera e propria occasione di sfarzo e solennità. Il convivium aveva luogo in un’apposita stanza della domus , il triclinium , arredato con i caratteristici letti a tre posti, disposti a ferro di cavallo intorno a un tavolo, sui quali i convitati si sdraiavano stando su un fianco e tenendo la mano destra libera per prendere il cibo (uso di importazione greca caratteristico delle classi sociali elevate, mentre il popolo era solito mangiare seduto). Tutto nel convivium corrispondeva a un codice noto e condiviso: dall’ordine gerarchico di disposizione dei convitati nei triclini al numero e alla successione delle portate e delle libagioni di vino e così via. Una gerarchia che vigeva inoltre per i servitori dal nomenclator , colui che annunciava gli invitati, ai ministratores , “camerieri da sala” più giovani e belli, accuratamente pettinati e con abiti eleganti dai colori vistosi. Ultimi per importanza erano coloro che si occupavano di servizi più umili e spiacevoli, i quali si presentavano rasati e con tuniche grezze. Le portate corrispondevano a tre fasi canoniche di svolgimento del banchetto: ab ovo usque ad mala , ovvero, diremmo noi, “dall’antipasto alla frutta”. Esse erano: La gustatio , un antipasto di varie pietanze leggere e stuzzicanti: verdure, insalate, funghi e tartufi, ostriche, frutti di mare, formaggi alle erbe, olive, salsicce, torte salate, oltre alle immancabili uova, accompagnati dal mulsum (vino con miele); La cena propriamente detta, che si componeva di varie portate ( ferculae , anche sette o più), i piatti forti della serata a base di carne, pesce e verdure, spesso molto elaborati e scenografici, innaffiati dal vino; La secunda mensa , infine, cioè il dessert, con dolci, frutta fresca e secca, e anche con piatti salati e piccanti (focaccette, formaggi, salsicce, ecc.) tali da eccitare la sete per la commissario, la “gozzoviglia” a base di grandi bevute di vino al termine della cena, durante la quale venivano portate in tavola le statuette dei Lari familiari per un brindisi d’augurio. Durante tutta la cena rimanevano sulla tavola, a disposizione dei commensali, la saliera ( salinum ) e l’ampolla dell’aceto ( acetabulum ). Il momento del convivio non era solamente dedicato al piacere della gola ma era una celebrazione anche di tutta un’altra serie di piaceri che andavano dalla poesia, alla musica e al divertimento. Nulla avveniva senza che gli invitati potessero godere di otri di vino bianco e soprattutto rosso. Tra i vini più noti si ricordano dalla Campania il Marsico e il Falerno, e dal Lazio l’Albano, il Cecubo e il Sabino. I vini di grande pregio venivano anche fatti invecchiare per poi essere offerti con grande orgoglio agli ospiti.
Autore: Simone Tabusso 1 maggio 2020
II secolo a.C. Catone il Censore scrive il suo De agri cultura , un manuale agronomico per dare consigli e suggerimenti sulla cura e la gestione di un tenuta agricola. In esso è contenuta la ricetta del Libum, una focaccia rituale da provare! Di seguito le indicazioni in latino: Libum hoc modo facito: casei p. II bene disterat in mortario, ubi bene distriverit, farinae siligineae libram aut, si voles tenerium esse, selibram similaginis solum eodem indito permiscetoque cum caseo bene; ovum ununm addito et una permisceto bene. Inde panem facito, folia subdito, in foco caldo sub testu coquito leniter. Traduzione: Preparai il Libum in tal modo: si tritino bene nel mortaio due libbre di formaggio; quando le avrai tritate bene, vi verserai una libbra di farina di grano tenero o, se vorrai che sia più morbido, appena mezza libbra di semola, e mescolerai ben col formaggio. Aggiungerai un uovo e mescolerai bene il tutto. Con questo impasto farai una pagnotta, la poggerai su foglie di alloro e cuocerai col coppo lentamente. Il Libum può essere facilmente riprodotto nelle nostre cucine moderne, per la nostra degustazione abbiamo usato queste dosi: Ingredienti 400g di ricotta di Pecora 100g di Farina 1 uovo foglie di alloro Preparazione Porre in una ciotola la ricotta e ammorbidirla con una forchetta, aggiungere la farina e mescolare il tutto. Rompere l'uovo e amalgamarlo con il composto. Formare delle focaccine e porre sotto la foglia di alloro, posizionarle su una teglia con della carta da forno. Preriscaldare il forno a 200°, inserire la teglia e cuocere per 25 minuti fino a doratura. Servire calde. Abbinamento Il Libum si sposa in modo eccellente con il nostro antico vino romano Aureum , per stupire i tuoi ospiti con un aperitivo di 2000 anni fa!
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